Sentieri Aperti

Giorno della memoria


Un giorno

Un giorno, la partenza, destinazione ignota.
Il distacco dalla vita, improvviso, lacerante.
La disperazione su un foglio, naufrago dalla fessura del vagone.

Nella solitudine del campo, il conforto, amaro,
di un affetto remoto nell’illusione di un istante condiviso,
riflesso dal chiarore della luna oltre il filo spinato.

Fuggito è il tempo dalle macerie degli Uomini.
Da dove soffia quel vento, leggero e complice,
del dolore e dell’amore per sempre scolpiti
in un lacero pezzo di carta.

Ottavio D’Alessio

Treni

Erano i tempi che i treni
arrivavano in orario

Erano strane stazioni
si chiamavano Auschwitz, Dachau, Trablinka

Erano i tempi che i treni
arrivavano in orario

Abbaiare di cani
strillare di bambini

Erano i tempi che i treni
arrivavano in orario

Fare
senza pensare

Andrea Giovannini

Hitler dipingeva acquerelli

Hitler dipingeva acquerelli

La tragedia del Novecento

sulla punta di un pennello
la leggerezza dell'acqua, del colore

su cartoline illustrate
ritratti urbani ha dipinto

Com'è potuto
accadere il resto?
e diventare grigio intorno

e fango e dolore
e corpi martoriati
e filo spinato?

LorellaA.

Un po' più forte

Imre Kertesz insieme ai ragazzi
sulla via, sotto la bocca abbassata dell'arma
ai lati i ruminanti sanno così poco
così poco

Dante Alighieri e Primo Levi
gli occhiali profilati oro, l'occhio destro
più grande, il piazzale

Louise Jacobson rientra a casa di volata
non ha la stella gialla, corre ansimante
con la cartella

L'abbaino e Anna, la mamma sotto la foto di
Anna a Brema con la sua bambina le spiega
chi era stata Anna nell'abbaino, Peter, e Anna
Peter e Anna

il palazzo borghese romano e Rosetta Loy, le masserizie nell'ascensore
giù dalle scale, i vicini li portano via

Tutti i mattoni uno a uno della Risiera di San Sabba
cresce per sbaglio un ranuncolo
vedo cose che non ci sono, ruote, coperte e tante altre cose che non ci sono
vederle è soltanto vederle, e non è soltanto vederle

la vallata è verde
sulla panca parlano
presto chi non ci sarà più
parlerà un po' più forte
un po' più forte
un po' più forte
un po' più forte

Enrico Ernst

I carnefici

Nella poesia che ho scritto poco fa dal titolo Un po' più forte
non c'era un solo carnefice, non uno

nemmeno quel vecchietto
a Bariloche o in Brianza, con occhi liquidi color
del cielo
stimato riservato
ai piedi scarponcini da montagna
nel pugno un bastone d'osso

non c'era il quadro di Bocklin dietro la
scrivania di Adolf Hitler
l'isola dei morti

non c'era Eichmann dietro il vetro
il cane lupo
l'impiegato il passacarte
l'esperto di logistica il medico
il cappello con visiera
il saltatore in bianco e nero
nell'occhio di Leni Riefenstahl

non c'era la diffusione di Wagner o di Schumann
l'ordine tedesco perentorio
sulla banchina

insomma dove sono andati?
sono forse quei visi bianchi con il dente d'oro
dietro l'abat-jour
sono loro gli inarrivabili?
Possibile che, sereni, giochino a carte?
Senza nemmeno barare?

Enrico Ernst


Contro il Giorno della Memoria.
Un provocatorio pamphlet di Elena Loewenthal.

Se solo si potesse dimenticare, la storia della Shoah... Come si fa a scendere a patti con una storia così? Come si fa a farci i conti? A togliersela dalla testa, a non trasformarla in un’ossessione, a evitare che ti si aggrovigli dentro? A pensare che possa lasciarti in pace anche soltanto un momento, per tutti i giorni della tua vita? Niente da fare. Te la trascini dietro. Sai che ci stai dentro e non ne esci più anche se sei nata dopo.
Forse, ogni tanto speri di poterla dimenticare. È pura illusione, è un auspicio che affidi, caso mai, alle generazioni successive. Ma altro che memoria, culto della memoria, celebrazione della memoria, moralità della memoria. Per te che sei nata dopo, cioè per me, il vero sogno sarebbe poterla dimenticare, questa storia. Rimuovere la Shoah dall’universo della mia coscienza e dal mio inconscio, soprattutto. Smettere, ad esempio, di sentirmi l’intestino in gola ogni volta che vedo e sento passare un treno merci con il suo sferragliare pesante, la lentezza del moto e del suono che assorda, la parete impenetrabile dei vagoni.
Altro che GdM. Ci vorrebbe quello dell’oblio, per me. O almeno la possibilità di sistemare tutta quella memoria su una nuvola, come si fa adesso. Non perché sia vuoto, anzi. L’oblio non si fa con il vuoto, ma con il pieno, come il troppo pieno. È una forma di difesa dall’angoscia, una pulsione di vita, l’oblio: così spiega Simon Daniel Kipman in L’Oubli et ses vertus. Anche lui, che è psicoanalista, al dovere della memoria contrappone il diritto all’oblio e soprattutto il diritto alla trasformazione in tracce meno tossiche e più confortevoli dell’«iscrizione traumatica e traumatizzante del ricordo».
Se solo la si potesse dimenticare, questa storia. Non i suoi morti, che poi sono miei, ma la storia in sé. Le leggi razziali, le persecuzioni, i treni con i deportati, le camere a gas, le torture, le fucilazioni di massa, le violenze assurde. Perché mai coltivarne la memoria, se non per continuare a star male? Ma l’autolesionismo non fa parte della mia identità, né del mio bagaglio morale o teologico. L’ebraismo è una cultura della vita, ha fede nella vita. Non coltiva la morte.
Pensare che gli ebrei ambiscano a celebrare questa memoria significa non provare nemmeno a mettersi nei loro panni. Quella memoria è scomoda, terribile, respingente. Ne farei tanto volentieri a meno, non finirò mai di ripeterlo. È la prima cosa da chiedere, appuntata nella mente, se mi capitasse di nascere un’altra volta, con la possibilità di opzione: grazie, questo no. Né prima né durante né dopo. Mettetemi in un mondo dove non c’è la Shoah.
Anche per questa ragione, o forse in primo luogo per questa ragione, io rinnego il GdM: non mi appartiene, non gli appartengo, non riguarda me e la mia, di memoria. La mia memoria non comunica. Malgrado la mia vicinanza estrema e quotidiana, provo una frustrazione terribile che è la conseguenza di una distanza minima, ma insormontabile. A un passo di lì ci sono quel dolore, quelle paure. Lo so, ma non posso far nulla per condividerlo, per sentirlo, per renderlo comunicabile. Non lo è né lo sarà mai. Come non è veramente condivisibile alcuna sofferenza al mondo, del resto. [...]
Ma ovviamente l’oblio non è una terapia culturale accettabile. Viviamo in un tempo che celebra la memoria come valore e l’oblio come difetto. Ricordare è un bene di per sé. Siamo portati a considerare questo come un assunto indiscutibile. Ma forse non è così. Forse anche le società hanno bisogno di dimenticare – le ferite, i torti perpetrati e quelli subiti. Come l’individuo, che per riprendersi deve rimuovere i traumi almeno in parte, almeno per un certo tempo.
Al di là di questo, il GdM sta dimostrando, purtroppo, che la memoria non porta necessariamente un segno positivo, non è utile o benefica di per sé. Può rivoltarsi e diventare velenosa. Scatenare il peggio invece di una presa di coscienza. Come aiuta molti a capire, come fa opera istruttiva, così il GdM è diventato il pretesto per sfogare il peggio, per riaccanirsi contro quelle vittime, per dimostrare che sapere non rende necessariamente migliori. Di fronte ad alcuni, diffusi fenomeni, la reazione istintiva è ormai quella di rammaricarsi della conoscenza acquisita: se circolasse meno memoria, se di Shoah non si parlasse tanto e disinvoltamente, forse si eviterebbero esternazioni verbali – e a volte non solo verbali – che sono un insulto rivolto a tutti. Ai morti, ai sopravvissuti, ma soprattutto alla società civile contemporanea. In sostanza, in questi ultimi anni la memoria non si è dimostrata particolarmente terapeutica: se di certe cose si parla molto più che in passato, è anche vero che non di rado se ne parla offendendo la memoria – sempre che abbia senso, l’espressione «offendere la memoria»: caso mai si offendono i vivi, perché i morti, purtroppo per loro, non si offendono più. È quasi come se la celebrazione della memoria avesse autorizzato la sua stessa violazione. Per questo ogni tanto il silenzio sarebbe auspicabile.
Ma la violazione peggiore, quella più grave e sicuramente più gravida di conseguenze, è quella di considerare il GdM come l’occasione di un tributo agli ebrei, un postumo e ovviamente simbolico risarcimento. Non è, non dovrebbe essere nulla di tutto questo.
Il GdM riguarda tutti, fuorché gli ebrei che in questa storia hanno messo i morti. Che non l’hanno ispirata, ideata, costruita e messa in atto. Che non l’hanno neanche vista, in fondo: ci sono precipitati dentro. Era buio. Gli altri sì che hanno visto. È questo sguardo che dovrebbe celebrarsi nel GdM. Allora nel presente, oggi verso il passato.
E non è uno sguardo nemmeno consolatorio. [...] Ma non certo per far sì che non accada mai più. La memoria non porta con sé alcuna speranza. La cognizione del male non è un vaccino. «Ricordare perché non accada mai più» è una frase vuota. Se anche non dovesse accadere mai più, non sarà per merito della memoria, ma del caso.
http://www.lastampa.it/2014/01/16/cultura/contro-il-giorno-della-memoria-GKkosn3Gh3Ddz5qNYBOQMJ/pagina.html